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Il pittore Aldo Frosini

IL PITTORE ALDO FROSINI
Appunti di Fabrizio Zollo

Ho iniziato a frequentare Aldo Frosini nell’autunno del 1979 quando m’insediai con lo scultore Valerio Gelli nello studio di Via San Marco a Pistoia. Valerio e Aldo erano molto amici, sin dalla giovinezza, e soprattutto si stimavano. Era pertanto inevitabile che conosciuto l’uno, avrei conosciuto anche l’altro. L’incontro con Aldo, ancor più che con Valerio, fu un amore a prima vista. Il primo passo lo fece lui: me lo vidi apparire quasi subito in Palazzo comunale, nell’ufficio dove lavoravo come dirigente pubblico già da cinque anni. Fu una visita inaspettata e del tutto piacevole, in quanto relativizzava quel lavoro così lontano dai miei sogni e ne cauterizzava le ferite, portandomi una boccata d’aria fresca e colorata, quella della sua passione per la pittura che sin da giovane dava un senso alla sua vita e ne informava ogni istante. Le sue visite in quell’ufficio, come del resto da allora la sua presenza nella mia vita, furono un punto fermo, momenti sereni dove adagiarsi e dove delineare più compiutamente i miei progetti fuori di quelle mura. Entrava con discrezione, questo è sempre stato il suo modo di proporsi: "Ciao Patrizio, esco ora da lavorare, ti posso salutare un momento?", con quel suo vocione profondo che si stenta ad attribuire ad un corpo così minuto. Anche l’aver scelto da subito di chiamarmi come solo dai familiari e dagli amici dell’infanzia mi sentivo chiamare, mi fece percepire questa figura come se fosse sempre stata della partita, come se fosse scritto da qualche parte che dovesse entrare in quella fase della mia vita. Solo molti anni dopo avremmo scoperto di essere lontanissimi parenti: un cugino di mia madre, un certo Cesare Cappellini che faceva il fabbro in Via Argonauti, era zio acquistato di Aldo Frosini in quanto aveva sposato una sorella di sua madre. Da allora le sue visite divennero costanti, nell’ufficio come nel nuovo studio di Via San Marco e, da vent’anni, nello studio di Via del Vento, dove gli incontri sono una costante, quasi un rito. Tutti i sabato pomeriggio ci ritroviamo io, lui e l’amico Paolo Mati, e sprofondati nelle poltrone parliamo di massimi sistemi e di cose piccolissime, perlopiù di restauri, pigmenti, colle, gessi, tele e dei modi migliori di preservare per i posteri le opere importanti, di ciò che in città è antiestetico e di quello che invece dovrebbe esser fatto, di etica e di estetica, di ricordi di vecchi mestieri e botteghe che vanno scomparendo. Pontifichiamo tra di noi e troviamo nella disamina delle piccole cose un riflesso dell’infinito e nel nutrirci di cose semplici la chiave per affrontare e spiegare le cose complesse. Lì stabiliamo ciò è bene e ciò che è male. Senza appello. Perché non vi sono interlocutori, nessuno è ammesso. E ci troviamo perlopiù concordi tanto è la consonanza del nostro vedere. Tutto può esser fatto in città, persino ogni scempio, ogni sperpero di denaro pubblico, ma se ciò che viene realizzato, anche se avesse il plauso pubblico e tutte le maggioranze qualificate e le unanimità, non passasse il vaglio del nostro giudizio è come se non fosse stato fatto, è un errore insanabile che conferma le insipienze delle amministrazioni pubbliche della città, passate e presenti, e dei vari assessori alla cultura. Anche le mie visite nello studio di Aldo, al numero 5 di Via San Pietro, sono iniziate venticinque anni fa, e rispondono sempre ad un bisogno interiore forte. Il salire quelle scale, l’entrare in quelle stanze, mi concilia con il mondo, mi scarica di ogni tensione e la vista delle sue novità, le sue coerenti e costanti pro-gressioni pittoriche, mi rapiscono disponendomi a pensieri positivi. Altre immagini le affido all’articolo L’atelier di Frosini, dove passano le fate. Una visita a margine della “antologica”, che scrissi per il quotidiano "Il Tirreno" in occasione della mostra antologica che il Comune di Pistoia gli dedicò nella Sala Napoleonica di Piazza del Carmine nel giugno 1989: Se entrate nello studio di Aldo Frosini, di un vero artista, penetratevi in silenzio, con i passi felpati dei raggi obliqui della sera che inopinatamente, come timidi ospiti, si adagiano sul pavimento e sugli oggetti, vestendoli dei colori del ‘romanico’ della chiesa antistante, di cui quei raggi sono le proiezioni luminose, che poi piano piano si allontanano indossando i colori del ricordo. Colpirà quel vago profumo di spigo, che scoprirete essere un’essenza naturale con la quale il pittore diluisce i colori e che evaporando si volatilizza pervadendo le stanze di un indistinto sapore d’antico. "Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili l’immenso edificio del ricordo". Anche di quell’odore e di quel sapore di cui parla Proust si nutrirà il ricordo della visita nell’atelier di Aldo, oltre che della visione della solidità della sua pittura, del colore, della trama costruttiva, della poesia degli accordi. Ed anche del candore e della disarmante timidezza di Aldo si nutrirà il ricordo della visita, perché di quel candore è specchio la sua pittura, spontanea ma non ingenua, spessa e pulita perché prodotto di stratificazioni emozionali filtrate da una ricca memoria ed ossigenata nel suo percorso da un personale senso poetico del colore. Come il filo di seta che impercettibile lega le perline di una collana, la coerenza di questo pittore lega in successione logica i periodi delle sue originali stagioni pittoriche. Queste, come giardini fecondi, vengono coltivate finché non generano i frutti migliori e vengono poi, senza apparenti rimpianti, repentinamente abbandonate senza ritorni, per nuovi terreni da esplorare, dissodare, fruttificare. Quello che colpisce di questo pittore è, dietro un’apparente precoce senilità, il celarsi di una stupefacente creatività, capace di rinnovare incessantemente la sua pittura come in rari casi è dato di riscontrare. Quella creatività e quella coerenza non lo hanno mai abbandonato: dalla partenza del suo fare pittorico legato all’oggetto, avvolto peraltro in una cupa atmosfera di colori scuri, alla subitanea affrancazione, in un’opalescente e poi sempre più limpida tavolozza di colori chiari, di azzurri, di rosa e di bianchi, che costituiscono la struttura coloristica con la quale supporterà il suo iter pittorico. La stessa creatività e coerenza, sono certo, lo condurranno per mano dentro i giardini fioriti dell’avventura astratta. Ma non voglio qui spiegare la pittura di Aldo, ché questa si spiega da sola, basta che la si voglia e la si sappia guardare con lo stesso animo candido con la quale è stata concepita. In molti hanno parlato dei suoi periodi, da quello strettamente figurale a quello della prevalenza coloristica, da quello delle ‘reti’ a quello delle ‘impalcature’, da quello del ‘romanico’ a quello delle ‘città’: ma credo che in fondo voler schematizzare e catalogare una pittura che, comunque si esprima, è pur sempre vera pittura, sia un compito che non interessi poi molto nemmeno al pittore. Preferirei invece soffermarmi sulla descrizione di quell’atelier, di quell’ambiente in cui opera e che così bene rispecchia il carattere del suo solitario abitatore, il luogo dove nascono quelle opere di cui si diceva e nel quale sono percepibili i segni della loro genesi e non anche certo le ragioni di quella stessa genesi, che sono invece conservate dentro di lui e che probabilmente a lui stesso sfuggono. In quelle stanze, in quegli scaffali sono conservati, allineati, gli utensili, gli strumenti del vecchio ed artigiano mestiere del chirurgo, insieme alle vernici trasparenti, alle colle animali e vegetali, ai colori in polvere, ai bianchi di calce, agli azzurri di lapislazzuli, alle ocre gialle e rosse. Lo stesso amore per la conservazione dei suoi dipinti si fa preoccupazione e si traduce in pignola e ossessiva attenzione nella preparazione delle tele, come fare naturale, non certamente per malcelata sopravvalutazione delle proprie opere: ché anzi, la sincera modestia di questo artista, per chi non lo conosca, fa coppia con la sua, questa sì, apparente insicurezza. Il lungo corridoio sul quale si affacciano le stanze-studio, come ariose e spaziose celle di un convento romitorio, raccoglie come un fiume dai suoi affluenti, le opere dei vari periodi, mentre alle pareti di una stanzetta, quasi ‘cappella’ dello stesso convento, sono raccolte esclusivamente opere del periodo ‘romanico’. Fra queste ti rapisce una tela dai toni azzurrini dove piccole tessere, simili a quelle delle vetrate musive di medievali chiese provenzali quando siano attraversate da neutri fasci di luce, dispiegano riflessi di verde smeraldo, lacche violette, indaci e oltremarini. Ti incantano i suoi riflessi, ma ti rapiscono anche le note d’organo che l’immaginazione ti fa udire, mentre nell’altra stanza il monaco-pittore nella sua spolverina bianca accudisce alle sue funzioni nelle vaste celle del convento-atelier. In questa stanza, dove vive la creatività quotidiana, si lasciano cadere perle preziose come un curioso gioco che tradisca l’inequivocabile passaggio delle fate. Aldo abita in Piazza Mazzini, oggi Piazza San Francesco, al numero 37, nella casa che fu dei suoi genitori e alcuni dei suoi quadri più grandi circondano le pareti del salotto a piano terra, dove persino i divani, il tappeto e la madia disegnata dall’architetto Giovanni Michelucci ci parlano del suo gusto e si sposano a quei dipinti come nessun altro oggetto meglio avrebbe potuto con loro dialogare. Le altre stanze sono invece rimaste ferme nel tempo, a ricordarci il suo vissuto. La cucina ed il tavolo quadrato col piano di marmo, al centro, la madia anni quaranta, il lavello di graniglia. Tutto di un tono acquamarina, tutto molto sobrio, da scapolo come Aldo è sempre stato. D’altra parte con chi avrebbe potuto condividere le sue quasi maniacali abitudini, ma soprattutto per chi avrebbe potuto rinunciare anche ad uno spicchio della sua gelosa libertà, a quali altri figli che non fossero stati i suoi dipinti avrebbe potuto dare tutto sé stesso? Al piano di sopra la camera da letto si apre su un terrazzino che si affaccia sulla piazza e sul quale non si è quasi mai affacciato, e conserva anch’essa il letto, l’armadio e il cassettone che furono dei suoi genitori. L’altra camera da letto, che dà sul retro presenta lo stesso tipo di suppellettili, ma non le usa, quasi fosse in attesa di chissà quale ospite di riguardo. La realtà è che Aldo tiene a quei mobili che racchiudono parte della sua vita, quella della giovinezza, ed a niente sono valsi i miei suggerimenti perché trasformasse quella stanza in uno studio per l’estate, quando i primi caldi di maggio e di giugno gli impediscono di lavorare adeguatamente nello studio di Via San Pietro. Già l’estate, la stagione in cui da oltre vent’anni Aldo, nei primi giorni di luglio, si fa accompagnare in taxi a Gavinana, sempre presso la solita affitta-camere, nella villa primi Novecento in posizione dominante sul paese soprannominata ‘K2’, dove incontra sempre le stesse persone, e dove scende in Piazza Francesco Ferrucci sempre alla stessa ora nello stesso ristorante dove ordina sempre le stesse cose e dove, quando a Pistoia il caldo diventa insopportabile, lo raggiungono gli stessi amici attratti anche dalle buone mani del cuoco. In questa sua abitudine estiva Aldo mi ricorda tanto la regola militare, un po’ incomprensibile come tutte le regole, di cui da bambino mi parlò mio padre: "il due giugno ai soldati vengono fornite le camicie a mezze maniche e vengono ritirate quelle invernali, anche se quel giorno per assurdo dovesse nevicare". Anche Aldo si decide ad andare a Gavinana quando il caldo più insopportabile, il primo, ha già dovuto subirlo in città. Dicevo che Aldo non potrebbe mai dipingere in casa, non tanto per la sacralità del luogo, quanto per la sacralità dell’altro luogo, dello studio. Non potrebbe dipingere dove è anche uomo, dove è animale, dove mangia dorme e fa i bisogni. Deve lasciare là dentro tutte queste cose, uscire, magari sempre alla stessa ora ben s’intende, e recarsi in un luogo altro, dove salendo tutti quei settanta scalini, prima di entrare si sia scrollato di dosso ogni residuo di convenzionale gestualità per abbandonarsi alla pura creatività. Nello studio sembra manifestarsi una sorta di doppia personalità: l’artista esce come una farfalla dall’uomo-crisalide e svolazza davanti al cavalletto dando sfogo ad una creatività impensabile per un uomo di ottant’anni. Per cercare di parlare di ciò che Aldo realizza, cosa ardua perché più facile è sentire che descrivere, riproporrei quello che scrissi come accompagnamento ad una cartella di acqueforti acquarellate che Aldo realizzò nel dicembre 1993. "Ho molto amato la pittura per se stessa, come si ama una ragazza senza dote"; questo, se valeva certamente per Maurice Vlaminck che l’aveva affermato, vale ancor più per Aldo Frosini che ha fatto della pittura, con lo studio per il colore e la sua non incidentale disposizione sulla tela, la ragione prima del suo esistere, per questa sposa eterea rinunciando ad affetti più terreni ma anche a vincoli che non fossero quelli delle sue stesse abitudini. E anche queste rigo-rosamente subordinate ai quotidiani incontri col suo grande amore, nella bianca alcova popolata di monumentali cavalletti e tele immacolate in attesa d’esser possedute. Dopo gli esordi giovanili con un breve e obbligato tributo all’accademismo, la tendenza all’astrazione di Frosini, dal 1945 al 1965, inizia ad esprimersi, più col colore che con le forme, in un matissiano anelito verso una poetica sempre più obbediente a spinte interiori. Dal 1965 al 1987 con le tematiche delle “finestre”, “reti”, “impalcature”, “romanici” e “finestre romaniche”, l’accentuazione astratta assume i connotati di una sistematica frantumazione degli archètipi della memoria familiare ed ambientale e di una loro ricomposizione in una stravolta e singolare reinterpretazione dove le immagini reali sono solo i pretestuosi simulacri sui quali il colore, nei suoi inusitati ed evocativi rapporti, diviene sempre più l’elemento fondamentale dell’opera. A partire dal 1988 l’arte di Frosini si affranca totalmente dal referente oggettuale, ovvero dal suo residuale significato, per librarsi in un limbo ove il caleidoscopico disporsi dei tasselli cromatici sulla tela vive di vita propria come una stella supernova di cui si sia persa la gènesi. Quanta di questa costruzione appartenga al sogno e quanta alla lucida determinazione è difficile dire, anche se non saremmo lontani dalla realtà se ipotizzassimo un impianto concettuale iniziale ed il successivo disporsi su quello degli attributi cromatici, affiancati per consonanze o per contrasti, in un processo di creazione in itìnere dove l’armonìa dell’insieme sembra rispondere tanto ad una poetica pittorica quanto ad una raffinata logica musicale. Siamo nell’attuale tematica delle “città”, così definita solo per quel vago riferirsi delle opere agli stereotipi che l’immaginario collettivo riconnette all’idea di metropoli, una sequela di finestre e di toni che svettano a sfidare il cielo, ma all’interno della quale si muove un’umanità oppressa da un’angoscia esistenziale che nessuna conquista materiale sembra lenire. Solo ai fanciulli ed ai poeti è dato affrancarsi dalla cappa oppressiva di convenzioni e cemento in cui l’uomo stesso si è imprigionato, solo l’innocenza o la creatività possono costituire quella sorta di bolla d’ossigeno che come un’aureola accompagna gli uni e gli altri verso quelle iridescenze in cui la rarefazione dell’aria è anche purificazione dello spirito. E se dobbiamo ammettere che "l’arte consiste nel rendere l’attimo in cui il vero sta per vanire nel sogno" come scrisse Lorenzo Viani, dobbiamo anche constatare che da anni ormai la pittura di Aldo Frosini si muove esclusivamente negli spazi incantati di quel sogno, dove i vapori delle visioni s’increspano, depositando sulla tela la decantazione rappresa e inspessita di quelle piumate interiori immagini. E riproporrei qui di seguito quello che scrissi per accompagnare un’altra sua cartella di acqueforti acquarellate che realizzò nel dicembre 1999. Essendo trascorsi sei anni dall’altro scritto, meglio sono spiegate le cose anche del periodo attuale. Sei anni fa, presentando un’altra cartella di incisioni del pittore Aldo Frosini, affermavo che a partire dal 1988 la sua arte "si affranca totalmente dal referente oggettuale, ovvero dal suo residuale significato, per librarsi in un limbo ove il caleidoscopico disporsi dei tasselli cromatici sulla tela vive di vita propria come una stella supernova di cui si sia persa la genesi". Oggi, nel confermare che la ricerca di Frosini si muove nel grande solco tracciato dalla poetica dell’Informale sviluppatasi in Europa nel decennio ’50-’60, possiamo aggiungere che vi si muove con un’originalissima visione dello spazio (e dei ‘segni’, che occupano, animano e giustificano quello spazio). Se, infatti, l’affermarsi dell’Informale nell’arte discende dalla constatazione dell’incomunicabilità, o meglio che il linguaggio non è più il modo essenziale o unico di comunicare, il lavoro di Aldo Frosini sembra da parte sua volto a creare un linguaggio di segni, o più propriamente di note, tese a ricomporre la trama di un rapporto emozionale con l’osservatore. Se per Mondrian il cu-bismo non era sufficientemente razionalizzante e si sentì quindi di dover portare l’analisi di quello alla sintesi della linea, del piano e del colore, l’Informale supera il neoplasticismo di Mondrian e la gran parte dei movimenti succedutisi sino alla fine della seconda guerra mondiale, partendo dall’assunto della inspiegabilità dell’esistenza e giustificando quella dell’artista con ciò che questi fa, con il suo solo gesto, lasciando agli altri da allora in poi il dover dare un senso a quello che l’artista fa. Questa impostazione porterà al proliferare dei movimenti artistici di ricerca, anche estrema, come il tentativo, concettuale, di Lucio Fontana, di superare col taglio della tela l’ambito funzionale assegnato alla pittura, ma anche alla scultura, aprendo col suo gesto una comunicazione tra ciò che sta al di qua e al di là del piano. Premesse queste necessarie coordinate, se dovessi invece qui sinteticamente definire l’arte di Aldo Frosini, potrei usare l’espressione “strutturalismo lirico” che tende a conciliare due termini solitamente antitetici, eppure entrambi contestualmente presenti in Frosini, il primo a sottolineare il rigore compositivo col quale questi gestisce lo spazio, il secondo ad indicare l’effetto onirico ed irreale che la disposizione del colore in quello spazio produce. Ecco quindi che la pittura di Frosini rende ad un tempo una duplice impressione: di solidità e di levità. Questa ‘ubiquità’ della sua opera, cioè la sensazione che dà di essere ben ancorata alla terra ed allo stesso tempo di fluttuare in cielo, trova la sua massima espressione nei dipinti che, per semplificazione, contraddistinguerò col termine “tibetani”. L’effetto provo-cato nell’osservatore è infatti quello di un rapimento ‘religioso’, nel seguire con lo sguardo e con la mente i ‘vessilli’ di note iridescenti, simile a quello che coglie il visitatore davanti ai templi tibetani, tra gli echi modulari delle litanie dei monaci e l’alitare di banderuole devozionali nella luce rarefatta delle altitudini. La storia dell’arte ci dice come sia quasi una costante per i grandi pittori che la seconda parte della loro vita artistica sia condannata ad un’involuzione, un regresso, un impoverimento di creatività e di tecnica. Questo è avvenuto anche per tanti artisti pistoiesi del Novecento, purtroppo anche per quelli che erano partiti con premesse più moder-niste quanto a riferimenti stilistici e provvisti di notevole capa-cità tecnica. In Frosini non solo questa in-voluzione non c’è stata, ma possiamo affermare che sia l’unico artista pistoiese la cui opera testimoni di una progressiva ricerca di moduli tematici, non slegati ma coerentemente effetto ognuno del precedente e causa del susseguente, in un armonico e mirabile impianto costruttivo e cromatico che coinvolge l’osservatore facendolo partecipe di quelle stesse emozioni che hanno indotto l’artista ad affrontare il suo viaggio creativo. Nel momento in cui questo secolo volge al termine e può essere oggettivamente tratto un bilancio delle personalità artistiche che lo hanno segnato, voglio auspicare che le istituzioni locali intendano assicurare permanentemente alla fruizione della collettività cittadina l’opera di quello che ad un’attenta compa-razione può ritenersi uno dei più rilevanti artisti pistoiesi di questo Novecento, un secolo felice per questo aspetto, aperto dalle stupefacenti e brevi parabole esistenziali di Andrea Lippi e Mario Nannini e illuminato per decenni dalla solida figura aristica di Marino Marini. A differenza della montagna, il mare non è congeniale ad Aldo, lo innervosisce. Ciononostante, memore di felici trascorsi all’Isola d’Elba con Alfiero Cappellini ed altri pittori nella fine degli anni Cinquanta, dove aveva dipinto a tempera diverse ‘marine’ e vedute delle ‘miniere’, mi propose nell’ottobre 1986 di trascorrere qualche giorno a Marina di Campo con lui ed altri amici pittori ospiti nel Residence ‘La Quiete’ di cui avevano alcune quote di proprietà due amici del pittore Francesco Melani: il pistoiese Antonio Priami detto Pedro e il mobiliere quarratino Peruzzi. In un periodo in cui il residence era libero da turisti, questi erano lieti di ospitarci in due piccoli appartamenti con l’intesa che ci saremmo sdebitati del vitto e dell’alloggio lasciando loro alcuni dei dipinti a tempera che avremmo realizzato all’Elba. Così fu e quelle giornate furono per me indimenticabili, anche perché avevo già quarant’anni e non ero mai stato all’isola d’Elba, che mi stregò col suo silenzio, la sua luce e soprattutto coi suoi profumi. In quell’occasione realizzai alcune tempere, di cui una ricordo abbastanza riuscita, che riproduceva la piscina del residence, dovrebbe essere in casa di Pedro a Pistoia. Ne rimasi contento perché praticamente non mi ero mai cimentato nel paesaggio che non sentivo congeniale come la figura umana. L’esperienza fu talmente positiva, sia per noi che per chi ci ospitava, che la cosa fu reiterata l’anno seguente, con la stessa formula e con Francesco Melani che continuava a cucinare divinamente per tutti il pesce fresco e ci deliziava la sera dopo cena sulle panchine del lungomare di Marina di Campo con i suoi acuti tenorili. Quell’anno per alcuni giorni si unì a noi il pittore Alfredo Fabbri che portò anche il suo cane: nel tempo che noi realizzavamo un dipinto il Fabbri ne realizzava dieci. Ricordo di aver disegnato alcuni ritratti, in particolare quelli del Peruzzi e di sua moglie: piacquero a Francesco Melani che benevolmente li giudicò ‘rinascimentali’. Il soggiorno, dopo una pausa di cinque anni, fu ripreso, stessa formula ma non più al Residence del quale ‘Pedro’ aveva ceduto nel frattempo la sua quota, ma nella sua casa di vacanze di Marina di Campo. In quel periodo fu ospite di Pedro anche il presidente della Consiag di Prato, il pistoiese ingegner Melosi, al quale feci il ritratto a matita. In quell’occasione feci il ritratto a matita rossa su carta gialla anche ad Aldo e a Francesco Melani. Quello di Aldo dovrebbe averlo Pedro, quello di Francesco era appeso nella camera della sua casa di Pistoia dove lui una quindicina dopo morì. Dopo quel nostro terzo soggiorno ‘artistico’ all’Elba, non ve ne furono altri per me. Mi ritrovai per la prima volta da quando lo conosco, in rotta di collisione con Aldo, ed avemmo un diverbio. Una cosa momentanea, ma che mi consigliò per il futuro di non forzare la fortuna e di non rischiare di compromettere i bellissimi ricordi di quelle nostre permanenze nell’isola. Due caratteristiche di Aldo sono la timidezza e la modestia e non è detto che la seconda sia una conseguenza della prima. La timidezza è innata e lo porta a proporsi sommessamente, anzi a non proporsi affatto nei rapporti personali, a meno che non vi sia una motivazione di forte ed intima consonanza. La seconda è quella che gli fa rifuggire gli elogi e le amicizie dei personaggi importanti, di quelli che gli potrebbero procurare mostre altrettanto importanti, che lui non ha mai cercato, preferendo lavorare in silenzio senza proporsi la ribalta per la sua opera, ma solo la sua sopravvivenza nelle condizioni in cui è stata concepita e realizzata. Ciò che dà vita e vitalità ad Aldo è la pittura. Ciò che ogni giorno gli imprime la forza di alzarsi, vestirsi, compiere le rituali abluzioni, fare la colazione, uscire e percorrere quel chilometro che separa la sua casa di Piazza Mazzini dallo studio di Via San Pietro e salire quei settanta scalini è la consapevolezza che varcata quella soglia s’immergerà in un limbo. Un territorio franco, dove tutte le ansie si ricompongono, dove le polveri colorate, a noi che siamo grigia polvere, disponendosi sulla tela possono perpetuare oltre il limite temporale che ci è dato questa nostra fragilità. Un territorio franco dove possiamo inventarci mondi d’immagini ‘altre’ rispetto a quelle che ci sono imposte, ed a quelle aggrapparci e disperatamente credere che siano il reale che ci circonda o che vorremmo ci circondasse. E dare così un senso, una giustificazione, anche a tutte quelle azioni quotidiane e a quella rete di rapporti a molti dei quali dobbiamo soggiacere: solo ciò che si realizza, solo la qualità, il valore assoluto, in una parola la ‘dignità’ dell’opera, che da quel momento vive anch’essa di vita propria, dà dignità alla vita di un artista, e giustifica le banalità delle azioni che deve svolgere per ottenerla. E la forza che Aldo ogni giorno inconsapevolmente sfoggia, la trasmette a chi gli vuole bene e che trova in quella di lui una ragione per darsene una propria. Fin quando lui, che ci precede, darà questo esempio di come dobbiamo intendere la realtà, noi cercheremo di seguirlo.

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